Capire il fenomeno dell’Islam politico, fino a poco tempo fa considerato poco più che un semplice esercizio teorico per accademici, è diventato di capitale importanza per comprendere i prossimi sviluppi politici del Medio Oriente. Le elezioni avvenute dopo la cacciata di Ben Ali e Mubarak hanno infatti visto la schiacciante vittoria dei partiti islamisti, e in particolare di quelli legati alla Fratellanza musulmana. Aspettando di assistere alle elezioni in Libia nelle quali un risultato simile si preannuncia probabile, Equilibri ha intervistato Massimo Campanini, tra i più prestigiosi studiosi di cultura islamica in Italia, docente di storia dei paesi islamici all’Università di Trento e autore di numerosi libri sulla storia e le radici teoriche dell’Islam politico. Al professor Campanini, che ha appena pubblicato il suo ultimo libro su questo tema, “L’Alternativa Islamica” (ed. Bruno Mondadori), abbiamo chiesto in particolare di spiegare gli ultimi avvenimenti e le dinamiche socio-politiche che hanno caratterizzato fin qui lo sviluppo dei partiti islamisti in tutto il Medio Oriente e Nord Africa, e in particolare di quelli legati più o meno direttamente ai Fratelli Musulmani.
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Equilibri: Innanzi tutto una domanda sulla stretta attualità egiziana. A meno di un mese dalle elezioni presidenziali non mancano i colpi di scena nella campagna elettorale. I recenti sviluppi, che sembrano favorire Amr Moussa, sembrano soprattutto il frutto di un conflitto sempre più radicale tra islamisti e militari, i quali, dopo un apparente periodo di non belligeranza, dall’inizio del 2012 hanno intrapreso un durissimo scontro politico. Ci potrebbe spiegare le ragioni e le dinamiche interne di questo conflitto?
Campanini: Gli interessi di islamisti e militari divergono là dove entrambi, da posizioni opposte, aspirano a egemonizzare l’evoluzione del processo politico. I militari vogliono salvaguardare, da un lato, i propri privilegi (soprattutto sul piano economico e sociale) e il proprio ruolo di forza dominante all’interno del quadro politico, mentre forse, dall’altro, preferirebbero che la forma dello stato conseguente alla riscrizione della costituzione e al determinarsi di potenziali cambiamenti democratici si discosti il meno possibile dal modello mubarakiano. Fin dall’inzio ho avuto l’impressione che l’intervento dei militari fosse finalizzato a garantire una transizione morbida e non particolarmente traumatica per i vecchi equilibri di potere, pur in qualche modo consentendo trasformazioni istituzionali di un certo rilievo, anche, se non forse soprattutto, simbolico. Entrambi questi obiettivi rendono necessario un controllo più o meno stretto sulla situazione politica e il postponimento del rientro nelle caserme, richiesto da più parti, dagli islamisti così come dalle forze di sinistra, per dare maggiore credibilità alla nuova democrazia. D’altro canto, gli islamisti – ma io li indicherei più precisamente per nome, i Fratelli Musulmani – intendono capitalizzare al meglio la vittoria elettorale e la acquisita presenza nei gangli vitali del potere non tanto per proporre un rapido cammino verso lo stato islamico, che sarebbe prematuro, ma per poter dimostrare di essere in grado di governare e di imprimere all’Egitto ad un tempo una svolta etica e politica. I Fratelli Musulmani hanno l’occasione di proporsi quale forza egemonica in grado di coagulare in un blocco storico divergenti interessi sociali e politici, ma anche culturali. Non è detto che questa ambizione sia teoricamente cosciente nei dirigenti dell’organizzazione, ma costituisce un’incentivo a chiedere all’esercito un passo indietro e a ravvivare un confronto che certifichi la capacità dei Fratelli Musulmani di rappresentare prioritariamente le molteplici anime della società egiziana.
EQ: Partiti e movimenti ispirati alla Fratellanza Musulmana sembrano acquistare consensi dal Marocco fino al Golfo (come nel caso del Kuwait). Potrebbe spiegarci a grandi linee quanto questi movimenti hanno in comune e quali invece sono le differenze che li caratterizzano, anche in chiave di alleanze internazionali?
C: Le fenomenologie dell’islamismo sono molto variate e altrettanto variate sono le circostanze storiche che ne determinano le scelte e le tattiche. La matrice originaria di molti dei movimenti islamisti attualmente alla ribalta nel mondo arabo, da reperirsi nella Fratellanza Musulmana egiziana, fa sì che abbiano un comune orizzonte strategico: trasformare la società in senso islamico per garantire, nel lungo periodo, la realizzazione di uno stato ispirato a princìpi religiosi. Si tratta, da un lato, di perseguire una islamizzazione dal basso che, attraverso la profonda trasformazione antropologica dei singoli individui in senso islamico, garantisca nel tempo un’altrettanto profonda trasformazione prima della collettività sociale e poi dello stato. Tuttavia, lo stato islamico è concetto talmente flessibile, per non dire ambiguo o indeterminato, che potrebbe riempirsi di contenuti istituzionali i più diversi e adatti e adattabili alle circostanze. Così in Marocco abbiamo un partito islamista, Giustizia e sviluppo, conversante col potere, cooptato nel parlamento e schierato favorevolmente alla monarchia; e un partito islamista più radicale, Giustizia e carità, che fa aperta professione di repubblicanesimo e che è escluso dalla partecipazione politica.
In Egitto abbiamo il partito ispirato dai Fratelli Musulmani, Libertà e giustizia, che sembra disponibile a sostenere il gioco democratico. Altre organizzazioni partitiche in Giordania, per esempio, o in Yemen e Libia operano in relazione alle necessità locali, siano esse quella di confrontarsi con una monarchia di legittimità religiosa o quella di confrontarsi con un tessuto sociale condizionato dal tribalismo o dalle rivalità settarie. Finora, i movimenti ispirati alla Fratellanza Musulmana si sono dimostrati piuttosto pragmatici e in grado di non farsi condizionare dalle rigidità dogmatiche. Credo che questa osservazione – una volta i partiti islamisti si siano consolidati al potere, fatto tutt’altro che scontato – varrà anche sul piano internazionale. Mi sembra improbabile che in politica estera essi assumano un accentuato atteggiamento anti-occidentale, sebbene, certamente, ci sia da aspettarsi un irrigidimento delle posizioni nei confronti di Israele, o, per lo meno, una minore condiscendenza verso lo stato ebraico di quella dimostrata, per esempio, dal governo di Mubarak. Piuttosto, sarebbe interessante verificare se gli islamisti al potere sarebbero maggiormente inclini a una politica, per così dire, terzomondista che privilegi le relazioni Sud-Sud piuttosto che le relazioni Nord-Sud. In questo caso, sì, davvero ci sarebbe un mutamento significativo degli equilibri internazionali rilanciando il ruolo dei paesi emergenti e dei continenti emergenti (come l’Africa) sulla scena mondiale.
EQ: L’ascesa dei partiti islamisti soprattutto in Egitto e in Tunisia ha portato alla ribalta temi da sempre legati alla contrapposizione laici-religiosi nel mondo musulmano, come la laicità dello stato sancita in costituzione, l’uso del velo ecc. Si parla invece poco delle differenze, se ce ne sono, tra le politiche economiche inserite nei programmi dei due schieramenti. Ci potrebbe dare una breve sintesi di tali differenze?
C: Temo che la mia risposta sarà solo tentativa perché non mi sono ancora dedicato ad analizzare le differenze (se ce ne sono) tra i programmi economici dei due schieramenti. Mi limito a due osservazioni. Da una parte, è stato ormai dimostrato che non esistono pregiudiziali islamiche al capitalismo, anzi si potrrebbe dire che l’Islam, grazie al suo spirito commerciale ed affaristico, sia particolarmente incline ad abbracciare politiche economiche di tipo capitalistico. D’altro canto, sebbene un pensatore autorevole e complesso come Sayyid Qutb si sia duramente espresso contro il capitalismo, in tempi recenti i Fratelli Musulmani hanno scelto un orientamento liberista, spesso schierandosi contro le lotte sociali, operaie e popolari, che hanno agitato la scena egiziana. Ciò potrebbe apparire in contrasto con lo spirito egualitario del Corano e con la attenzione che il Libro sacro dedica ai poveri, ai reietti, agli oppressi da poteri iniqui. Piuttosto, ci si potrebbe chiedere se veramente i partiti islamisti, soprattutto in Egitto, abbiano un programma economico degno di nota. Bisogna forse far proprie le osservazioni di Tariq Ramadan in un libro recentissimo: “Quali sono effettivamente i pensieri sviluppati [dagli islamisti] per riformare la politica economica delle società del Sud? Si può ben invocare una economia islamica o una finanza islamica, ma nei fatti, su scala nazionale e internazionale, nulla è stato proposto che sia realmente alternativo e propriamente influenzato dall’etica islamica”.
EQ: Anche se al momento il successo dei partiti islamisti in Nord Africa sembra essere accolto positivamente dalle case regnanti del golfo, ci sono alcuni analisti che vedono in una contrapposizione tra islamismo “costituzionale” legato ai fratelli musulmani, e islamismo “monarchico” legato al conservatorismo e al wahabismo tipici delle monarchie del golfo uno degli scenari probabili per il futuro a medio-lungo termine del mondo arabo sunnita. Qual è la sua opinione a riguardo?
C: Le monarchie del Golfo, e in particolare l’Arabia Saudita, hanno tutto l’interesse a interferire con i processi politici in atto nei paesi arabi toccati dalle rivolte, e ad aiutare e sostenere quei movimenti islamisti, soprattutto i salafiti, che si ispirano a una visione dell’Islam maggiormente rigida e conservatrice, per non dire integralista. Ciò servirebbe anche a garantire l’egemonia del Wahhabismo e del salafismo – in una versione, sia pure, modernizzata e tutt’altro che aliena dall’utilizzo dei devices dell’attuale tecnologia – su tutto il mondo islamico, un progetto perseguito fin dai tempi del re saudita Faysal (1964-1975) e poi attraverso una miriade di iniziative e di interventi, come quelli a favore delle forze islamiste che combatterono i sovietici prima e combattono gli occidentali adesso in Afghanistan. Si tratta di un obiettivo che dovrebbe essere contrastato sia dall’Occidente (che dovrebbe temere la deriva consevatrice del Wahhabismo e del salafismo ma che continua invece a sostenere, per interessi geostrategici, monarchie reazionarie come quella saudita) sia da quelle forze musulmane moderate che come lei dice sembrano più inclini a un islamismo costituzionale. Potrebbe avere esiti favorevoli in questo senso la rivalità che in Egitto – paese centrale e chiave del mondo arabo e del Medio Oriente – , ma anche, sembra di capire, in Tunisia, divide i Fratelli Musulmani dai salafiti, a meno che poi queste forze non scoprano di poter convergere su prospettive a lungo termine comuni, come quella dell’instaurazione dello stato islamico. Lo scenario futuro è difficilmente prevedibile anche perché si registra una certa fluidità nelle strategie degli attori in campo, sulle cui decisioni potrebbero influire anche elementi esogeni, per esempio (anche se sembra più un wishful thinking che una prospettiva reale) il ritorno in piazza dei movimenti spontanei di democrazia diretta che hanno caratterizzato i rivolgimenti tunisini ed egiziani.
EQ: L’espressione “modello turco” ha caratterizzato i dibattiti riguardanti gli sviluppi futuri della primavera araba per tutto il 2011. Il 2012 ha però visto una notevole inflessione nell’uso di tale espressione forse motivata anche da un parziale arenarsi dell’iniziativa diplomatica turca nello scacchiere arabo, soprattutto in Siria, nonché da un riaccendersi di alcuni tradizionali problemi interni come quello curdo. Secondo lei ha senso parlare ancora della Turchia come possibile modello trainante per gli sviluppi politici degli stati arabi?
C: Credo personalmente che la Turchia non abbia mai rappresentato un reale modello di riferimento per i movimenti e i partiti islamisti in azione nel mondo arabo. Sebbene, dal punto di vista puramente teorico, si possano notare certe somiglianze e certe assonanze tra l’AKP di Erdogan e i Fratelli Musulmani, questo non vuol dire affatto che i movimenti e i partiti islamisti arabi abbiano mai aspirato a porsi sotto l’ala protettrice dei turchi. Anzi, i Fratelli Musulmani egiziani hanno vivacemente contestato le presunte ingerenze turche nella situazione interna dei paesi arabi. L’attivismo diplomatico di Ankara nel 2011 ha aumentato notevolmente l’autorevolezza turca nel Medio Oriente aprendo ulteriori spazi di azione e di intervento, ma, a parte quello curdo, rimangono altri elementi irrisolti, come quello dei rapporti con l’Iran degli ayatollah. Siamo proprio sicuri che gli interessi geopolitici degli arabi e dei turchi convergano a questo proposito? L’Arabia Saudita, bastione del sunnismo (e gelosa dei propri interessi nel Golfo) accetterebbe una mediazione turca nei confronti dell’Iran, bastione dello sciismo (e fermo sostenitore dei propri interessi nel Golfo in nome del petrolio)?
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ISSN: 2038-999X